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Sudan in ombra: oltre la crisi, il silenzio internazionale


Di Giada Pelleriti

25 giugno 2024

Tempo di lettura: 6 minuti
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Nell’incessante flusso di notizie globali, alcune crisi dominano i titoli dei giornali e le fasce orarie di prima serata: la guerra israelo-palestinese e il conflitto tra Ucraina e Russia catturano gran parte dell’attenzione del mondo. Tuttavia, un altro conflitto devastante scivola sotto il radar, in gran parte ignorato dalla comunità internazionale e dai media globali.

La guerra civile in Sudan, che dura ormai da più di un anno, sta spingendo la nazione sull’orlo del collasso. Il bilancio umanitario è sconcertante: 14.000 persone hanno perso la vita e oltre 10.000 persone costrette a fuggire dalle proprie case. Nonostante la gravità della crisi, questa tragedia non riesce ad arrivare alle prime pagine, rimanendo una catastrofe silenziosa all’ombra di conflitti mediatici1.

Il conflitto tra le forze armate sudanesi (SAF), l’esercito regolare del Sudan guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, e le Forze di Supporto Rapido (RSF), la milizia paramilitare comandata dal generale Mohammed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti, ha radici profonde che risalgono ai  trent’anni di regime militare di Omar Al-Bashir, ufficiale delle SAF. Sin dall’inizio del suo governo, il 30 giugno 1989, Al-Bashir incrementò le misure di sicurezza del paese creando le Forze di Difesa Popolare a novembre dello stesso anno. Questo organismo aveva il duplice scopo di proteggere il regime e fungere da punto di riferimento per tutte le milizie già presenti nel paese.

Durante lo stesso periodo, le SAF furono modernizzate e ampliate, ricevendo addestramento ed equipaggiamento da vari alleati internazionali. Parallelamente, varie milizie venivano utilizzate per combattere le numerose guerre civili che affliggevano il Sudan. Un ruolo significativo lo ebbero le Janjaweed, milizie arabe impiegate dal governo per combattere i ribelli nel conflitto civile del Darfur del 2003. Nel 2013, furono formalmente riorganizzate e integrate nelle RSF, in cui Mohammed Hamdan Dagalo, già militava2.

Le SAF e le RSF, dunque, coesistevano già trent’anni fa, contribuendo alla complessa rete di forze militari che caratterizza il Sudan fino a oggi.

I due generali più potenti del Sudan, Al-Burhan e Hemedti, supportati dalle rispettive forze armate, hanno scritto alcune delle pagine più turbolente nella storia recente del paese. Uniti nella lotta durante la guerra in Darfur, nel conflitto in Yemen al fianco di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, e nel rovesciamento di Omar Al-Bashir nel 2019, la loro alleanza sembrava infrangibile. Tuttavia, questa cooperazione militare si è rivelata fragile.

Nel 2019, i generali assunsero il controllo come presidente e vice presidente di un consiglio militare transitorio, elevato successivamente a Consiglio Supremo della Presidenza della Repubblica Collettiva. Questo passaggio cruciale avvenne dopo un accordo con i partiti civili volto ad avviare una transizione democratica. Tuttavia, il 25 ottobre 2021, le due forze hanno condotto un colpo di stato che interruppe bruscamente il processo democratico, arrestando il primo ministro Abdalla Hamdok3.

Le tensioni latenti tra le Forze Armate del Sudan (SAF) e le Forze di Supporto Rapido (RSF) non si sono mai placate. Anche dopo il golpe, Stati Uniti, Gran Bretagna, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti hanno tentato di mediare, cercando di facilitare un dialogo tra le parti.

All’inizio di dicembre 2022, un nuovo spiraglio di speranza sembrava aprirsi quando esponenti civili pro-democrazia e rappresentanti militari firmarono un accordo-quadro. Questo documento delineava le questioni chiave per ulteriori negoziati e consultazioni, con l’obiettivo di formare un governo civile entro pochi mesi e riprendere la transizione democratica. Tuttavia, l’accordo fu percepito come una ‘promozione’ per Hemedti, uno dei due generali, aggravando ulteriormente le tensioni. 

Tra il 13 e il 14 aprile 2023, il Meccanismo trilaterale, comprendente il Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per il Sudan, Volker Perthes, e rappresentanti dell’Unione Africana e dell’Igad, convocò una riunione per discutere gli sviluppi. Tuttavia, prima che questa potesse avere luogo, la capitale era già precipitata nel caos della guerra4.

I dati dell’ONU sono chiari: dall’inizio della guerra oltre 18 mila sudanesi affrontano quotidianamente gravi carenze alimentari. Il vice direttore del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, Carl Skau, ha sottolineato l’urgente necessità di sforzi coordinati e diplomazia congiunta per evitare che il Sudan diventi la più grande crisi alimentare globale5. Nonostante gli appelli, la risposta umanitaria rimane estremamente insufficiente: solo il 5% dei fondi necessari è stato raccolto, compromettendo gravemente la distribuzione di aiuti e servizi di emergenza vitali.

Il direttore di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale ha accusato le Nazioni Unite di non aver fatto abbastanza per proteggere i civili e fornire adeguati aiuti umanitari, nonostante le numerose violazioni e crimini di guerra6. Solo dopo un anno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione per il cessate il fuoco e facilitare l’accesso agli aiuti umanitari, segnando la necessità di un’azione più incisiva7.

Recentemente, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una misura presentata dal Regno Unito, intimando alle Forze di Supporto Rapido (RSF) di porre fine all’assedio di Al Fashir, capitale del Darfur settentrionale, dove milioni di civili sono intrappolati. Nonostante il sostegno della maggioranza dei membri del Consiglio, la situazione sul campo non ha ancora mostrato segni di miglioramento8

Gli appelli delle Nazioni Unite sono pochi, e ancora meno sono gli effetti mediatici. La crisi in Sudan è largamente ignorata da chi non segue gli affari umanitari o la sicurezza internazionale. Nemmeno l’appello dell’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Linda Thomas-Greenfield, sembra aver avuto risonanza. “Questa è la più grande crisi umanitaria sulla faccia del pianeta. Eppure, la situazione rischia di peggiorare”, ha dichiarato al Times, ma le sue parole sono scomparse nel vuoto editoriale9

Le dinamiche internazionali complicano ulteriormente la situazione: gli Stati Uniti agiscono in maniera contraddittoria nella loro politica estera, chiedendo il cessate il fuoco e il blocco delle armi in Sudan, ma continuando a fornire armi per il massacro a Gaza. Nel frattempo, Russia e Iran sostengono le Forze Armate del Sudan (SAF), mentre gli Emirati Arabi Uniti appoggiano le Forze di Supporto Rapido (RSF)10

La mancanza di copertura e di risposta internazionale alla difficile situazione del Sudan evidenzia una preoccupante disparità nel modo in cui le crisi globali vengono denunciate e affrontate. Mentre il Sudan vacilla sull’orlo del baratro, l’indifferenza del mondo non fa altro che aggravare le ferite di un paese che ha un disperato bisogno di attenzione e aiuto.

Se la situazione non acquista l’importanza che merita come ogni emergenza umanitaria, niente potrà cambiare.

Sudan in the shadows: beyond the crisis, the international silence


By Giada Pelleriti

June 25th, 2024

 

Reading time: 6 minutes

In the relentless churn of global news, certain crises dominate headlines and prime-time slots: the Israeli-Palestinian war and the conflict between Ukraine and Russia capture much of the world’s attention. However, another devastating conflict slips under the radar, largely ignored by the international community and global media.

The civil war in Sudan, now over a year old, is pushing the nation to the brink of collapse. The humanitarian toll is staggering: 14,000 lives have been lost, and over 10,000 people have been forced to flee their homes. Despite the severity of the crisis, this tragedy fails to make it to the front pages, remaining a silent catastrophe in the shadow of more mediatic conflicts.

The conflict between the Sudanese Armed Forces (SAF), the regular Sudanese army led by General Abdel Fattah Al-Burhan, and the Rapid Support Forces (RSF), the paramilitary militia commanded by General Mohammed Hamdan Dagado, known as Hemedti, it has deep roots in the thirty years of the military regime of Omar Al-Bashir, a SAF officer. Since the beginning of his rule on June 30, 1989, Al-Bashir increased the country’s security measures by creating the Popular Defense Forces in November of the same year. This entity was designed to protect the regime and serve as a coordination point for the various militias in the country.

During this period, the SAF underwent modernization and expansion, receiving training and equipment from various international allies. Concurrently, multiple militias were utilized to fight the numerous civil wars plaguing Sudan. Notably, the Janjaweed, Arab militias deployed by the government to combat rebels during the Darfur civil conflict in 2003, played a significant role. In 2013, these militias were formally reorganized and integrated into the RSF, under the command of Hemedti.

Thus, the SAF and RSF, having coexisted for over thirty years, contribute to the intricate web of military forces that defines Sudan today.

Sudan’s two most powerful generals, backed by their respective armed forces, have written some of the most turbulent pages in the country’s recent history. United in battle during the war in Darfur, the conflict in Yemen alongside Saudi Arabia and the United Arab Emirates, and the overthrow of Omar Al-Bashir in 2019, their alliance once seemed unbreakable. However, this military cooperation proved to be fragile.

In 2019, the generals took control as president and vice president of a transitional military council, which was later elevated to the Supreme Council of the Presidency of the Collective Republic. This crucial transition occurred following an agreement with civilian parties aimed at initiating a democratic transition. However, on October 25, 2021, the two forces orchestrated a coup that abruptly halted the democratic process, arresting Prime Minister Abdalla Hamdok.

The latent tensions between the Sudanese Armed Forces (SAF) and the Rapid Support Forces (RSF) never subsided. Even after the coup, the United States, the United Kingdom, Saudi Arabia, and the United Arab Emirates attempted to mediate, seeking to facilitate a dialogue between the parties.

n early December 2022, a new glimmer of hope seemed to emerge when pro-democracy civilian representatives and military officials signed a framework agreement. This document outlined the key issues for further negotiations and consultations, with the goal of forming a civilian government within a few months and resuming the democratic transition. However, the agreement was perceived as a ‘promotion’ for Hemedti, one of the two generals, further exacerbating tensions.

Between April 13 and 14, 2023, the Trilateral Mechanism, including the Special Representative of the UN Secretary-General for Sudan, Volker Perthes, and representatives of the African Union and IGAD, convened a meeting to discuss the developments. However, before this could take place, the capital had already plunged into the chaos of war.

Since the onset of the war, UN data has painted a stark picture: over 18,000 Sudanese face severe food shortages daily. Carl Skau, the deputy director of the United Nations World Food Programme, has emphasized the urgent need for coordinated efforts and joint diplomacy to prevent Sudan from becoming the world’s largest food crisis. Despite numerous appeals, the humanitarian response remains woefully inadequate: only 5% of the necessary funds have been raised, severely hampering the distribution of vital aid and emergency services.

The director of Amnesty International for East and Southern Africa has criticized the United Nations for not doing enough to protect civilians and provide adequate humanitarian assistance, despite numerous violations and war crimes. It took a full year for the United Nations Security Council to adopt a resolution calling for a ceasefire and facilitating access to humanitarian aid, highlighting the need for more decisive action.

Recently, the United Nations Security Council approved a measure presented by the United Kingdom, urging the Rapid Support Forces (RSF) to end the siege of Al Fashir, the capital of North Darfur, where millions of civilians are trapped. Despite the support of the majority of Council members, the situation on the ground has yet to show signs of improvement.

As the conflict continues, the plight of the Sudanese people remains dire. The international community’s slow response and the lack of sufficient funding have left many without the necessary resources to survive. The ongoing siege and widespread violence further exacerbate the crisis, making it imperative for global powers to step up their efforts to bring about a resolution and deliver much-needed aid to those in desperate need.

The United Nations’ appeals regarding the crisis in Sudan are few, and their media impact is even fewer. The crisis is largely overlooked by those not closely following humanitarian affairs or international security. Even the call to action from U.S. Ambassador to the United Nations, Linda Thomas-Greenfield, seems to have gone unnoticed. “This is the largest humanitarian crisis on the face of the planet. Yet, the situation threatens to worsen,” she declared to the Times, but her words vanished into the editorial void.

International dynamics further complicate the situation: the United States exhibits contradictory behavior in its foreign policy, calling for a ceasefire and an arms embargo in Sudan while continuing to supply weapons for the massacre in Gaza. Meanwhile, Russia and Iran support the Sudanese Armed Forces (SAF), while the United Arab Emirates backs the Rapid Support Forces (RSF).

The lack of coverage and international response to Sudan’s plight highlights a troubling disparity in how global crises are reported and addressed. As Sudan teeters on the edge, the world’s indifference only deepens the wounds of a country in desperate need of attention and aid.

Without the attention and importance that every humanitarian emergency deserves, nothing will change.

Bibliografia

1. Sudan: non c’è più tempo da perdere, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/sudan-non-ce-piu-tempo-da-perdere-178143 

 

2. Sudan: i contorni del nuovo conflitto, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/sudan-i-contorni-del-nuovo-conflitto-135618 

 

3. Ibid nota 1 

 

4. Sudan one of the ‘worst humanitarian disasters in recent memory’, UN warns, https://www.aljazeera.com/news/2024/3/20/sudan-is-one-of-the-worst-humanitarian-disasters-in-recent-memory-un 

 

5. Ibid  

 

6. Sudan, un anno di conflitto, https://www.amnesty.it/sudan-un-anno-di-conflitto/ 

 

7. Il consiglio di sicurezza dell’Onu chiede la fine dell’assedio di Al Fashir, in Sudan, https://www.internazionale.it/ultime-notizie/2024/06/14/sudan-darfur-consiglio-sicurezza-chiede-fine... 

 

8. Un anno di conflitto e stragi in Sudan: “la risposta della comunità internazionale è inadeguata,https://www.micromega.net/un-anno-di-conflitto-e-stragi-in-sudan-la-risposta-della-comunita-internazionale-e-inadeguata/ 

 

9. Ibid nota 2 

 

10.Ibid nota 2 

Giada Pelleriti

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Giada, appassionata di diplomazia e diritti umani, è una studentessa di Relazioni internazionali e sicurezza globale all'Università la Sapienza di Roma. Con una solida base in ambito internazionale grazie alla sua laurea triennale in Scienze Politiche all'Università Luiss, Giada dedica il suo tempo nell'approfondimento di temi riguardanti i diritti umani. Dopo il corso alla UCL di Londra in Human Rights, il suo sogno sarebbe lavorare per le Nazioni Unite nell'aiuto di chi ne ha bisogno.